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Il salvataggio interno o dall’interno[1][2][3], in inglese bail-in, è una modalità di risoluzione di una crisi bancaria tramite l’esclusivo e diretto coinvolgimento dei suoi azionisti, obbligazionisti, correntisti.

La direttiva 2014/59/UE[4], in vigore dal 1º gennaio 2016, riforma le procedure attivabili dalle autorità di risoluzione nelle crisi bancarie.

Tra i principi base di questa nuova disciplina c’è la possibilità, in alternativa al salvataggio interno, di cedere beni e rapporti giuridici ad un soggetto terzo (come una bridge-bank o una bad bank che raccoglie solo una parte dei beni per amministrarli e massimizzarne il valore di lungo periodo), l’ordine gerarchico di chi è chiamato a sopportare le perdite (bail-in), il principio per cui nessun azionista e creditore deve sopportare perdite maggiori di quelle che subirebbe se ci fosse una liquidazione coatta amministrativa: è il principio del no creditor worse off.

Non possono essere toccati da prelievo forzoso i depositi fino a 100.000 euro, esclusi dal salvataggio interno, che invece rimangono tutelati dai fondi interbancari degli Stati membri[5].

Non sono poi ovviamente toccati i patrimoni dei clienti (come azioni, obbligazioni, titoli di fondi) che la banca ha in gestione o in amministrazione. La direttiva introduce la riduzione o la conversione in azione degli strumenti di capitale (il cosiddetto write-down). La responsabilità grava sui soli soggetti aventi rapporti diretti con l’ente, evitando il coinvolgimento dei contribuenti, i cui fondi non saranno più impiegati per colmare i buchi degli istituti privati; lo stato interverrà solo in extremis (art. 56)[4] se è messa in pericolo la stabilità finanziaria o l’interesse pubblico, e mai con finanziamenti a fondo perduto: gli strumenti di sostegno pubblico al capitale sono la partecipazione al capitale sociale (art. 57)[4] e la proprietà pubblica temporanea (art. 58)[4].

Il coinvolgimento della clientela nel risanamento bancario interno parte da coloro che detengono azioni e strumenti di capitale, seguiti dai soggetti in possesso di titoli subordinati e obbligazioni, creditori subordinati, creditori chirografari e correntisti per somme superiori ai 100 mila euro.

Le autorità di risoluzione esercitano i poteri di svalutazione e di conversione in relazione a una passività risultante da un derivato solo al momento della liquidazione dei derivati o successivamente ad essa (art. 49). Alla risoluzione si affiancherà un piano di riorganizzazione aziendale, che darà modo all’istituto in crisi di proseguire in futuro con la propria attività (art. 51)[4].

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